di Grazia De Giuli
pubblicato su CEM Mondialità, giugno-luglio 2009
Nella mia meravigliosa professione ho avuto modo di insegnare anche a bambini di varie etnie e disparate provenienze ed ora mi vengono in mente tutti i loro visi, gli occhi attenti, la volontà di imparare e di superare tante difficoltà. In tempi non sospetti ho cercato però di travalicare i limiti della semplice trasmissione di nozioni e di apprendimenti, perché educare è scambio, è conoscenza dei loro bisogni e della loro cultura. Così ho visitato le loro case, conosciuto le loro famiglie.
Ho parlato con l’Imam di Juned, con il Guru di Sukwhinder, con i centri di cultura cinese dove Thien Thien si recava alla domenica per non dimenticare la propria lingua e le proprie radici.
Ho accompagnato i bambini in giro per Brescia, perché vedessero quanto era bella la città che li ospitava.
Ho avviato attività da svolgere in comune per far loro scoprire l’importanza di creare prodotti in cui ciascuno ha contribuito secondo le proprie capacità ed attitudini.
Ricordo Jilian e Marchen, albanesi, Eldar, bosniaco, Natasha, ucraina, Anatolj, moldavo. Un bel gruppo, una moltitudine di culture che era necessario preservare da contaminazioni verticistiche, che imponevano regole senza scambio. A volte mi sono sentita sola in questo mio lavoro o stanca o dubbiosa e non tutto è andato come avevo sperato. Con il passar del tempo (sono trascorsi vent’anni) ho capito quanto importante sia stata la mia ricerca di attitudini comuni in queste creature: la volontà, la serietà, l’onestà la coerenza nel comportamento.
L’onestà ha un colore unico.
Non esiste coerenza ucraina o moldava o indiana o cinese: hanno un colore unico.
E questi ragazzi si sono conosciuti, sono cresciuti insieme.
Ho organizzato corsi di fotografia, in cui ognuno potesse esprimere il proprio desiderio del «bello».
Insieme hanno scritto libretti, in cui ognuno contribuiva con le proprie esperienze ad un risultato comune.
E questi ragazzi si sono conosciuti e confrontati, hanno maturato reciproca comprensione, premessa indispensabile di una convivenza pacifica. Anche ora, girando per il quartiere, incontro qualcuno di loro. Sono grandi, lavorano o studiano (Thien Thien frequenta l’università ed ha un libretto di tutti … trenta!). Si fermano, mi danno la mano, salutandomi.
Io li guardo negli occhi e capisco se il mio lavoro ha dato frutti.
Il più delle volte li vedo, i frutti meravigliosi che sono maturati nel tempo e allora sono i miei occhi ad inumidirsi, perché capisco di aver ricevuto un dono che non scambierei per tutto l’oro del mondo.
E poi lo scorso anno mentre, come volontaria saveriana, studiavo per preparare la mostra : «Sahel, piste nella sabbia, cammino di pace», mi sono imbattuta in «Dudal Jam». Confesso che non ne avevo mai sentito parlare!
La vita, in momenti imprevisti, ti mette in contatto con realtà in cui le menti camminano all’unisono col cuore; in cui una via si percorre con semplicità, perché è la via giusta.
Dudal Jam è l’attuazione di un sogno; parte dall’intuizione felice di un prete francese, Lucién Bidaud, che nel 1962 arrivò in Africa ed avviò con la popolazione burkinabè attività di sviluppo, dando strumenti idonei e semplici per affrontare e risolvere i gravi temi della sopravvivenza. Padre Bidaud fu un uomo di preghiera, diede testimonianza di amore e di interesse per i problemi altrui, cercando di risolverli con intelligenza e coerenza. Nell’arida savana mise un seme, che poi divenne il «Dudal Jam», progetto culturale ed educativo, centro per la pace e lo sviluppo del Burkina Faso e dei paesi dell’Africa occidentale. Nell’apprendere tutte queste notizie, nell’osservare il Vescovo e l’Imam di Dori fotografati insieme nei loro vestiti bianchi, davanti ad un cartello che promuove un incontro per il dialogo interreligioso, lo sviluppo strutturale del centro e delle iniziative ad esso connesse, ho capito di essere a casa e non mi sono sentita più sola. Ho capito che lo slancio che mi ha sempre spinta nel compiere il mio lavoro è qualcosa che alberga nel cuore di molti uomini e che solo su questa strada si può proseguire nella comprensione reciproca. Da allora, davanti alla sezione «Dudal Jam» della mostra, iniziavo la spiegazione agli studenti con queste parole: «Nel deserto è nato un fiore».